Artcriticism

Critiche Artistiche

Artcriticism

MINIMALISMO SPIRITUALE di Carlo Franza

Storico dell’arte, Giornalista, Professore di Storia dell'Arte Moderna e Contemporanea

Le icone di Kuturi, Arte assoluta. Arte fuori da ogni stereotipo, arte mistica, arte sacrale, arte divinatoria, alla maniera dei “lari e penati” che gli antichi romani avevano in ogni abitazione. Queste tavole acquistano pertanto un senso mirato e forte, capace di sconvolgere ogni parametro di raffronto e confronto, ed anche un clima di sofferto stupore che infrange ogni edulcorata maniera e manierismo. Sembrerebbe essere tornati indietro di secoli, per leggere questi “fondo oro”, argento o rame, con le loro ossidazioni e le piccole pietre talvolta inserite nel contesto. Kuturi, napoletano, che ha guardato molto alle accoglienze di Lucio Amelio e agli artisti della sua scuderia, procede oggi a passi sicuri lungo una novella via francigena.
Molti celebri artisti del contemporaneo hanno utilizzato il fondo oro, Lucio Fontana, Yves Klein, Remo Bianco, Ettore Spalletti ecc.; tra questi anche Kuturi figura singolare del panorama artistico italiano dell’oggi, che mantiene una posizione assolutamente individuale, sviluppando un corpus di lavori che coniugano le memorie dell’arte antica e moderna, da Piero della Francesca a Giorgio Morandi, a Lucio Fontana. Quella di Kuturi potremmo definirla un’arte senza tempo, che assorbe la profondità della storia superandone la struttura cronologica e la movimenta muovendosi al confine tra bidimensionalità e tridimensionalità, fondendo tra loro pittura e scultura, tattilità e immagine, nell’immersione luministica dello spazio espositivo. L’artista denomina le sue icone “finestre sulla Bellezza infinita”, tableaux dorès, espressione di un minimalismo ascetico capace di consegnarci una visione che si svela sulla traccia di impercettibili tensioni suggerite da un segno, da una luce decantate nella struttura e nel colore. La posizione di Kuturi nell’arte contemporanea è fra le più difficili, in quanto si delinea sulla traccia di un severo impegno estetico e morale.
La sua ricerca procede per vie interne, con una continua messa in gioco della sensibilità e della coscienza, verso il traguardo di una verità poetica che, appunto, in quanto tale, è innovativa e rivoluzionaria.

Le opere di Kuturi sono un’avventura nel campo dello spirituale. Anche nella forma del dittico e del trittico sapientemente modulato – che ci riporta alla ripartizione del campo pittorico delle pale d’altare rinascimentali – trasformata in un doppio campo monocromo la cui oggettualità è evidenziata dal corpo e dalla profilatura dei bordi con foglia d’oro, la materia riflette la luce, rendendo così l’opera sensibile alle condizioni dell’ambiente che la circonda e richiamando alla mente la spazialità spirituale e senza confini delle tavole medievali a fondo oro. La luminosità della foglia d’oro che, come un raggio sottile, adorna il recinto delle icone, evidenzia ulteriormente la qualità tattile del colore steso in superficie, una caratteristica sensibile che, insieme al nitore delle forme assolute dei dipinti, caratterizza profondamente tutta l’opera di Kuturi. È pur vero che l’artista esplora le potenzialità espressive del colore, in questo caso l’oro attraverso una pigmentazione percettiva e viva, risultato di un procedimento in cui la pittura è mescolata a pigmento puro e gesso. L’impasto è poi steso a strati successivi e infine abraso, in modo da rendere la superficie pittorica allo stesso tempo carica di atmosfera e luminosità. Il colore così applicato intraprende un dialogo sensibile con la luce e ammorbidisce e smaterializza la geometria delle forme. Nonostante la predominanza della monocromia dorata, l’arte di Kuturi affonda le radici in una profonda tradizione analitica perché l’accordo formale scaturisce dalle inesauribili vibrazioni della scoperta, il tessuto filosofico si compone nel costante esercizio di una ferma coscienza dell’esistere.

Con lui nasce il MINIMALISMO SPIRITUALE.

ITA

E’ una di quelle mostre che diventano vera rarità nel sistema nazionale del mostrificio contemporaneo, e pertanto visitarla diventa un segnale importante per capire anche in che direzione può e deve andare l’arte contemporanea. Arte assoluta, arte fuori da ogni stereotipo, arte mistica, arte sacrale, arte divinatoria, alla maniera dei “lari e penati” che gli antichi romani avevano in ogni abitazione.

Queste tavole acquistano pertanto un senso mirato e forte, capace di sconvolgere ogni parametro di raffronto e confronto, ed un anche un clima di sofferto stupore che infrange ogni edulcorata maniera e manierismo. Sembrerebbe essere tornati indietro di secoli, per leggere questi “fondo oro”, con le loro ossidazioni e le piccole pietre talvolta inserite nel contesto.

Kuturi, napoletano, che ha guardato molto alle accoglienze di Lucio Amelio e agli artisti della sua scuderia, procede oggi a passi sicuri lungo una novella via francigena.Molti celebri artisti del contemporaneo hanno utilizzato il fondo oro, Lucio Fontana, Yves Klein, Remo Bianco, Ettore Spalletti, Giuliano Grittini, ecc.; tra questi anche Kuturi figura singolare del panorama artistico italiano dell’oggi, che mantieneuna posizione assolutamente individuale, sviluppando un corpus di lavori che coniugano le memorie dell’arte antica e moderna, da Piero della Francesca a Giorgio Morandi, a Lucio Fontana.

Quella di Kuturi potremmo definirla un’arte senza tempo, che assorbe la profondità della storia superandone la struttura cronologica e la movimenta muovendosi al confine tra bidimensionalità e tridimensionalità, fondendo tra loro pittura e scultura, tattilità e immagine, nell’immersione luministica dello spazio espositivo. In mostra nell’ex Studio di Piero Manzoni un’installazione di icone, che l’artista denomina “ossidate”, tableaux dorèe, espressione di un minimalismo ascetico capace di consegnarci una visione che si svela sulla traccia di impercettibili tensioni suggerite da un segno da una luce, decantate nella struttura e nel colore.

La posizione di Kuturi nell’arte contemporanea è fra le più difficili, in quanto si delinea sulla traccia di un severo impegno estetico e morale. La sua ricerca procede per vie interne, con una continua messa in gioco della sensibilità e della coscienza, verso il traguardo di una verità poetica che, appunto, in quanto tale, è innovativa e rivoluzionaria.

Le opere di Kuturi sono un’avventura nel campo dello spirituale. Anche nella forma del dittico e del trittico sapientemente modulato – che ci riporta alla ripartizione del campo pittorico delle pale d’altare rinascimentali – trasformata in un doppio campo monocromo la cui oggettualità è evidenziata dal corpo edalla profilatura dei bordi con foglia d’oro, la materia riflette la luce, rendendo così l’opera sensibile alle condizioni dell’ambiente che la circonda e richiamando alla mente la spazialità spirituale e senza confini delle tavole medievali a fondo oro.La luminosità della foglia d’oro che, come un raggio sottile, adorna il recinto delle icone, evidenzia ulteriormente la qualità tattile del colore steso in superficie, una caratteristica sensibile che, insieme al nitore delle forme assolute dei dipinti, caratterizza profondamente tutta l’opera di Kuturi.

E’ pur vero che l’artista esplora le potenzialità espressive del colore -in questo caso l’oro-attraverso una pigmentazione percettiva e viva, risultato di un procedimento in cui la pittura è mescolata a pigmento puro e gesso. L’impasto è poi steso a strati successivi e infine abraso, in modo da rendere la superficie pittorica allo stesso tempo con un senso di vissuto e carica di atmosfera e luminosità. Il colore così applicato intraprende un dialogo sensibile con la luce e ammorbidisce e smaterializza la geometria delle forme.

Nonostante la predominanza della monocromia dorata, l’arte di Kuturi affonda le radici in una profonda tradizione analitica perché l’accordo formale scaturisce dalle inesauribili vibrazioni della scoperta, il tessuto filosofico si compone nel costante esercizio di unaferma coscienza dell’esistere.

Prof. Carlo Franza
Storico dell'Arte Moderna e Contemporanea

LA FOGLIA ORO ERA UN FLORILEGIO DI VERDERAME, SFUMATURE CHE APRIVANO AD UNA NUOVA VISIONE


1. Capita sempre più raramente di incontrare autori che vivono una indipendente lateralità rispetto al sistema dell’arte, che operano e producono definendo un proprio sistema espressivo e realizzando un ciclo di opere rispondenti alla cultura contemporanea. Rispetto al passato ed in stretta relazione con la lunga stagione di crisi del sistema economico italiano, l’intero patrimonio della creatività artistica, ma anche il sistema delle gallerie private e delle strutture espositive pubbliche, ha subito una drastica riduzione di presenze operative, ha visto drasticamente crollare il mercato dell’arte contemporanea presso larghi strati di popolazione; di fatto la caduta dei numeri e la crisi di un collezionismo, da sempre poco diffuso nella società italiana, segnalano, per il futuro, un ulteriore impoverimento dell’intero patrimonio dell’arte italiana. Questa marginalizzazione si è riversata esclusivamente nella fase iniziale della fruizione espositivo-museale erelativamente solo ad una iconografia omologata sul piano del costume e della popolarità. Parallelamente, nell’ultimo decennio, si è osservata la crescita di attenzione e la presenza del sistema finanziario verso quello dell’arte contemporanea.All’interno di queste difficili dinamiche socio-culturali, figure artistiche inedite e appartate, non sempre e neanche strettamente attrici riconosciute del sistema espressivo, ma caratterizzate da una volontà creativa attenta e posizionata correttamente rispetto ai processi linguistici-contemporanei, rappresentano un prezioso segnale di vitalità; la presenza di una volontà di redazione dell’arte, al di fuori delle regole istituzionali delle accademie e del mercato, segnala da sempre una linea di continuità con il principio primario del fare dell’arte nella società umana. E’ compito delle diverse figure professionali e delle istituzioni dell’arte svolgere un ruolo di riconoscimento anche attivo in tale ambito.In questo quadro, fatto di attenzione, ho accolto l’invito dell’architetto Antonello Pelliccia, e collega a Brera, a conoscere il lavoro condotto in questi anni da KUTURI, che ho trovato esposto per la prima volta nella dimensione rigorosa del Centro Culturale Protestante nel centro storico di Milano.L’attenzione che adesso l’Assessorato alla Cultura e Turismo del Comune di Napoli, attraverso la specifica funzione espositiva del P.A.N., ha rivolto a KUTURI, ha offerto l’importante occasione di sviluppare e finalizzare la dimensione creativa dell’artista, raccolta in questa pubblicazione, contrassegnata da numerose testimonianze critiche, provenienti da ‘sguardi e orientamenti’ culturali diversi.

2. Ancora nella fase precedente rispetto a quella di osservazione del lavoro, rimanevo incuriosito dalla centrale attenzione che l’artista rivolgeva alla questione ed alle complesse valenze e valori racchiusi nell’esperienza originaria dell’icona; nella storia della cultura artistica occidentale infatti l’icona ha svolto un ruolo di cerniera fondamentale tra la stagione contemporanea e l’inizio del concetto stesso di immagine artistica nell’esperienza cristiana; ho trovato di fatto attivato un processo espressivo orientato a cogliere la funzione dell’opera in rapporto alla centralità della testimonianza, alla determinazione di imporsi sulla percezione in maniera esclusiva, cioè non narrativa.L’orientamento creativo suggeriva la volontà di operare una riflessione su questo dato strutturale nella definizione dei linguaggi visivi e una rielaborazione propositiva risultava immediatamente un dato intrigante, suggeriva alla curiosità di prendere contatto.
 
3. L’incontro con la prima produzione di opere di KUTURI mi dava conferma di una particolare forma di rivisitazione e di rielaborazione del concetto di icona; dell’entità originaria veniva infatti rispettato l’impianto e la dimensione, la ricerca di una tensione interna, la struttura di appoggio e il dato di ‘oggetto prezioso’; ogni manufatto distribuito nello spazio espositivo risultava testimone non di una successionenarrativa ma soggetto indipendente, teso a svolgere una funzione attrattiva e una percezione specifica.La lettura che potei fare non scorreva seguendo uno sviluppo, ma mi obbligava ad una concentrazione indipendente ed autonoma dedicata alla singola entità creativa; l’osservazione richiese i caratteri della ricerca e della scoperta, dell’indagine attenta ad una realtà visibile distinta, rafforzata da sempre inediti particolari interni; la scelta di una rigorosa forma di presentazione con ‘cassetta in metacrilato’ ulteriormente sottolineava l’indicazione a proteggere il contenuto, a difendere l’unità estetica interna dell’opera. La scelta di ‘racchiudere’ la tavola e il ‘mondo’ che vi si distribuisce tra grumi e fratture, assume il compito di una sottolineatura strutturale nella definizione preziosa dell’icona stessa. La didascalia ad ogni singola opera specificava in maniera oggettiva la cultura materiale adottata, ne suggeriva i processi aprendo sull’ignoto i possibili futuri sviluppi chimici.

4. A questo primo ciclo di icone ha fatto seguito una nuova produzione contrassegnata da una articolazione di inediti interessi espressivi, oggi al centro della mostra di Napoli e di questa pubblicazione. Alla presa visione delle opere ha fatto seguito un incontro diretto con KUTURI da cui dipendono queste riflessioni. Si è trattato di acquisire quelle informazioni biografiche che lo hanno costantemente posto in relazione con la cultura dell’arte in termini di assoluta autonomia dal suo sistema organizzativo; un percorso indipendente che non è stato comunque vissuto in termini di dissociazione dall’informazione ma che si è qualificato attraverso confronti selezionati; spicca la frequentazione con artisti della Galleria di Lucio Amelio a Napoli, l’incontro illuminante con Arman a Parigi e i rapporti con l’Accademia di Brera a Milano. Con molta probabilità la ricerca condotta nell’ambito della definizione di ‘icona contemporanea’ vede alla sua base l’intera stagione delle ‘seconde avanguardie’ ed in particolare tutti quei diversi Movimenti artistici, dalla Pop alla Minimal al Nouveau Realisme che hanno optato per la definizione del manufatto-immagine dell’arte. Eppure, su questa ampia base di pensiero estetico, KUTURI ha inserito nel processo espressivo, pur mantenendo la ‘fissità iconografica’ dell’icona, una processualità alchemica interna, un’esistenza aperta verso imprevedibili sviluppi. Sostituendo la “reazione chimica” alla gestione del colore, si è innescata quella ricerca della vitalità non programmabile interna alla materia stessa, racchiusa e sollecitata dalla contaminazione; ogni tavola d’oro diventa il supporto ad una sperimentazione che si configura luogo di produzione, spazio per lo sviluppo di un processo estetico.KUTURI ha di fatto studiato tuttii passaggi che sono alla base della cultura dell’icona antica, scegliendo con attenzione l’impiego della tavola e la preparazione del gesso, l’impiego del rosso d’uovo e della birra, la stratificazione dell’oro in foglia ed infine lo studio dei pigmenti eil loro prezioso utilizzo; è su questo patrimonio di conoscenze e non sulla sua attivazione che nasce l’intero ciclo di icone contemporanee. Alla stabilità frutto di una immobile ripetizione di atti e tecniche, KUTURI contrappone, con gli stessi strumenti, l’innovazione e la ricerca, l’instabilità e l’evoluzione; sono sopratutto le pietre da cui hanno avuto origine i pigmenti antichi a stimolare la reazione chimica e i processi alchemici, gli acidi che si inseriscono e le materie organiche: “ Poi la svolta, un errore, il tocco divino, la mano invisibile che ribalta il barattolo dell’acquaragia che cola tutta sulla foglia oro posata con cura. “Che rabbia! Lascio tutto e chiudo bottega, se ne riparla domani”.
 
Il mattino seguente la rivelazione; la foglia oro era un florilegio di verderame, sfumature che aprivano ad una nuova visione. Da li si iniziano gli esperimenti con tutti i tipi di acidi e solventi possibili...”Un incidente occasionale che detta l’inizio di un percorso, di un processo nel clima di work in regress che definisce la cultura contemporanea dell’arte; un procedere che non si rinnova, secondo la prassi alchemica, ma che vive di quella sperimentazione che nel tempo si affina : ” Il tempo è forse paragonabile a un “acido” universale, che corrode la “base” delle forme della natura, anche e soprattutto se queste “basi” sono costruite dall’ uomo sotto forma di simboli e di contesti significativi. ” (Riccardo Notte).

5. Le grandi sculture.L’evento espositivo a Napoli, vissuto con quella partecipazione che un ritorno alle proprie origini culturali produce, tanto presenti nella definizione esperienziale dell’alchimia, vede lo sviluppo rischioso di nuove avventure espressive e inedite scelte formali; la dimensione racchiusa e protetta del contenitore a cassetta, impreziosita, oltre ogni immaginazione, da un esemplare utilizzo del metacrilato, sembra non trattenere l’energia sperimentale e la curiosità di KUTURI. Nascono in questa più recente stagione una grande Pala d’altare, due Sculture, un Politticoe una istallazione plastica; manufatti fondati sull’ampliamento della cultura e dei valori racchiusi nella dimensione storica dell’icona, aggiungerei della cultura sacra delle origini cristiane, tanto persistente nella Chiesa Ortodossa. La Croce e il Polittico, la Tomba, tra le icone centrali della liturgia, tra vita, morte e resurrezione, vengono rivisitate e reinterpretate, suggerirei anche arricchite di quelle valenze dialettiche che la sensibilità artistica ha ‘scatenato’.Il percorso espositivo assorbe presenze dalla immediata forza dei materiali impegnati, contrassegnati dalla centralità teologica della luce, della sua rafforzata vitalità e interferenza con lo spazio; nasce la dimensione geometrica-simbolica che una patina d’oro esalta, ma anche sulla grande superficie di una aniconica pala d’altare progressivamente si impone l’incidenza invadente di una ossidazione magmatica e brulicante.Un tracciato che KUTURI conclude contrassegnandolo attraverso la dimensione trasgressiva di chi affronta la morte con valore di rinascita, di scavalcamento del presente, di un artista che riconosce la speranza nella creatività, operando un ribaltamento verso quelle nuove forme del pensiero che solo un’amara ironia e forse il gioco suggeriscono.

Andrea B. Del Guercio
Professore ordinario e titolare della Cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, Mil

La relazione che sussiste tra il simbolo e il segno stimola da millenni la riflessione di filosofi e scienziati. Preso in sé, qualunque segno può comunicare l’esistenza di uno schema d’azione o un rimando univoco; ma affinché si associ a un significato è necessario che gli attori della comunicazione condividano il contesto in cui quel significato ha acquisito senso, perché inerente alla pragmatica della comunicazione umana.Se un segno perde contatto con la costellazione simbolica che lo rendeva immediatamente decifrabile, coerente e consistente, esso è immediatamente esposto alla deriva interpretativa. Ed è una situazione frustrante, soprattutto se lo scopo del ricercatore o dell’interprete risiede nella piena decifrazione dell’oggetto in esame. Ma in un diverso contesto, questa particolare condizione di nudità può trasformarsi in una opportunità. Infatti, stimolata da una forma segnica enigmatica, l’attenzione dell’osservatore può liberarsi dagli invisibili lacciuoli del significato per librarsi nello spazio multisensoriale dell’immaginazione. Così, quando si esamina l’opera recente di Kuturi, si riconosce un insieme eterogeneo ma unitario di segni quasi del tutto decontestualizzati. Alcuni sembrano simboli riconoscibilissimi; ma le modifiche apportate da Kuturi disarticolano questi simboli dall’universo sociale, estetico e storico che li ha prodotti nella loro forma identitaria accertabile. In altre parole, Kuturi volutamente riporta i simboli alla nudità di segni.Le brevi osservazioni che seguono muovono quindi dalla irriducibilità dei segni: “chiavi” per l’apertura di porte della percezione, del pensiero e della fantasia. I segni sono infatti atemporali, anche se possiamo collocarli in un determinato intervallo storico, anche se tradotti in sculture, dipinti o installazioni. Ma quali sono i segni scelti da Kuturi?Alle pareti sono esposte numerose icone a foglia d’oro, trattate con un metodo particolare di ossidazione scoperto anni fa per caso, anzi, per errore, come ricorda lo stesso artista. Per i non addetti ai lavori è utile forse ricordare che la doratura richiede varie fasi. Prima si prepara il supporto (di solito una tavola) con il gesso e successivamente con un mordente detto “bolo”: una particolare argilla che può assumere colori e nomi diversi a seconda del luogo di provenienza, per esempio bolo armeno, bolo di Boemia etc.Finita questa operazione, mediante colle naturali e utilizzando un prezioso pennello di martora, si applica una sottile foglia di oro zecchino (una delle sette meraviglie della metallurgia) che deve essere poi lucidata con la pietra d’agata. È un’operazione delicatissima, difficilissima, che richiede perizia consumata e pazienza certosina. Un solo errore e tutto è irrimediabilmente rovinato. Ebbene, un giorno Kuturi trovò il frutto del suo lavoro distrutto da una soluzione acida caduta per caso.Eppure, il concetto di “caso” è solo un modo per interpretare la sequenza degli eventi della vita. Kuturi, passata l’immediata, ancorché comprensibile costernazione, osservò quel “caso” e lo trasformò in una “causa”; perché la bellezza e varietà di forme e colori scaturita da quella miscela chimica mostrava una qualità visiva sorprendente e affascinante.Ogni processo di ossidazione (tecnicamente di ossidoriduzione, o redox) richiede una certa quantità di tempo, che varia tra l’altro in funzione della concentrazione del soluto, della quantità di solvente e delle sostanze implicate nella reazione.Il risultato finale, in termini di resa visiva, è sempre imprevedibile. Soprattutto, questo particolare procedimento mostra alla lontana qualche affinitàcon la pellicola fotografica tradizionale, sviluppata e stampata nella camera oscura. Anche conoscendo tutti i segreti tecnici, il fotografo di un tempo sapeva che il processo di sviluppo e stampa (specialmente a contatto, col banco ottico) talvolta produceva effetti aleatori sorprendenti. È il fascino del segno che non si lascia ridurre a un significato univoco, che non è digitale, come appunto il segno tracciato dal connubio tra la natura (la reazione chimica) e la cultura (la mano dell’artista). In altri termini, Kuturi scoprì che un certo processo chimico può erodere non solo la materia, ma anche un costrutto simbolico, per ridurlo alla elementarità del segno.Il tempo è forse paragonabile a un “acido” universale, che corrode la “base” delle forme della natura, anche e soprattutto se queste “basi” sono costruite dall’ uomo sotto forma di simboli e di contesti significativi. Il paragone serve a contestualizzate le opere di Kuturi presenti in questa mostra.Troviamo infatti alcune installazioni di varie dimensioni. Prima un piccolo trittico a sportelli, forma “antica” e tipica (si pensi ad esempio al celebre Polittico di Gand di Jan van Eyck). Ma se svuotato del contenuto figurativo, cioè se si omette l’iconografia, ogni polittico è in definitiva un uscioo una finestra. Concettualmente la porta può essere anche una semplice linea, per esempio il confine tra due stati sovrani. Questo “oggetto-segno” non esiste in natura, ma esiste nelle forme dell’organizzazione umana perché di fatto è una soglia, anche senessuno si sogna di tracciare fisicamente una linea tra due entità politiche.Quando si elevano barriere fisiche, queste sono nient’altro che ostacoli visivi, materiali, ma soprattutto “simbolici”, che sottolineano la chiusura della frontiera, cioè della“porta”, per lasciare fuori (o tenere dentro) alcuni, molti o tutti; nessuno si sogna di estendere l’azione volontaria di questa soglia a un uccello in volo o a una radice di albero. I polittici (ma anche le icone) di Kuturi, liberi dall’ iconografia, liberati quindi dal contesto simbolico, sono soglie triplici; si aggiunge alla forma canonica dello sportello anche la soglia non-cromatica dell’oro zecchino e infine quella chimico-fisica della reazione acido-base.Stesso discorso per una croce di grandi dimensioni inclinata di quarantacinque gradi, collocata in modo che la parte anteriore e dorata si rifletta in uno specchio addossato alla parete. Se per un verso lo specchio esalta la tridimensionalità dell’oggetto, dall’ altra offre un insolito effetto tunnel che coinvolge lo spettatore e l’immagine riflessa del divino in un gioco di reciproci accostamenti o allontanamenti, a seconda della posizione che si assume rispetto allo specchio. L’allusione al biblico interdetto della visione diretta di Dio, presente anche in altre tradizioni, ad esempio nel mito di Zeus e Semele. Non solo la particolare collocazione della croce (non assimilabile alla croce di sant’ Andrea) destabilizza la canonica universalità dell’analogo simbolo confessionale, ma anche il trattamento cui è stata sottoposta determina una erosione del simbolo in direzione della nudità del segno. Infatti, grazie a una superficie specchiante, si ottiene lo sconfinamento dell’oggetto nella dimensione moltiplicata del mondo riflesso, “through the lookingglass”.Oltrepassata una grande pala d’altare collocata di fronte a ceri e lumini votivi e poi una croce che è stata trasformata in un ipercubo (altra allusione all’ attraversamento della dimensione percettiva e spaziale che si dà per scontata) si incontra alla fine del percorso un oggetto conturbante per definizione: la bara.L’installazione è intitolata Selfie. Consiste in un sacello coperto da una lastra tombale spaccata. All’interno una potente fonte luminosa esalta la foderatura a specchio oro. Accanto, una sedia vuota ma segnata da una ferita in oro allude a una assenza, a un distacco doloroso. La lapide contiene la fotografia infantile dell’artista, in bianco e nero. Sono incise due date: il giorno della nascita di Kuturi e dell’inaugurazione di questa mostra. È più che evidente l’intenzione di trasformare l’occasione di una esposizione nella segnalazione di una rinascita, di una ri-generazione: altrettanti effetti dell’attraversamento di una soglia.

Però, anche in questo caso, l’installazione è stata realizzata considerando l’effetto di sottrazione del significato; la riduzione a segno. In ciò troviamo non poche affinità con quanto avviene di fronte ai reperti archeologici che segnalano (ma non rappresentano) identità culturali e forme simboliche (le “forme di vita” di Wittgenstein) irrimediabilmente perdute.È opinione diffusa tra gli antropologi che il primo rito della sepoltura sia indizio di una nuova strutturazione cognitiva, assimilabile all’attuale; è infatti indicatore inequivocabile di un universo di credenze riguardanti il rapporto tra vita, morte e una qualche cognizione dell’al di là. Molteplici le congetture intorno a questo cruciale transito evolutivo. Come sia, testimonianze quali le tombe di Skhul e di Qafzeh in Israele o di La Chapelle-aux-Saints e di La Ferrassie in Francia, o di Sungir in Russia, per non dire di innumerevoli altre scoperte venute alla luce in tempi più o meno recenti, ma in località distanti tra loro tanto nel tempo quanto nello spazio, sono tutte accomunate dall’essere segni deprivati ai nostri occhi degli universi simbolici che le hanno prodotte.Si possono formulare infinite congetture su tali perdute credenze (affascinanti sono ad esempio le ipotesi di David Lewis-Williams e di David Pearce). Ma per proporreletture simboliche di mondi umani ormai perduti, gli studiosi si avvalgono degli oggetti o dei residui contenuti nelle tumulazioni: strumenti, pigmenti, resti organici di varia natura, monili, armi. Ovvero semplici segni. E tuttavia, queste supposizioni, per quanto ben argomentate restano opinioni influenzate dai nostri modelli interpretativi. Questi enigmi della preistoria mostrano fino a che punto i segni che essi rappresentano testimonino l’esistenza presso i nostri remoti antenati della percezione della soglia.A questo punto, e in conclusione, è utile appellarsi a chi si è spinto oltre la metodologia della dicotomia e dell’analisi. Nel pensiero del filosofo, estetologo, mistico e matematico Pavel Aleksandrovič Florenskij com’è noto l’icona è considerata immagine del mondo venturo; un’immagine sempre parziale, oscillante e incerta in questo mondo.Nondimeno, in virtù dei suoi elementi costitutivi (la fissità, il gesto rituale bloccato tra tempo ed Eterno, la luce immateriale dell’oro etc.), e in ragione del tipo molto particolare di produzione, direi anzi di quotidiano esercizio praticato dal pittore di icone, l’icona è anche un’immagine che può trasferire tracce della profondità metafisica all’ interno della dimensione temporale. La sua ragion d’essere consiste unicamente in questa testimonianza segnica: ciò che resta visibile, una volta oltrepassata la soglia dell’invisibile.

Riccardo Notte
Antropologo Professore di Antropologia delle società complesse Presso l’Accademia di Belle Arti Brera Milano

Entrare in dialogo con la tradizione delle icone cristiane orientali è un atto di coraggio da parte di Kuturi. Si tratta di una tradizione ricca e lunga che inizia nei primi secoli del cristianesimo, quando i credenti hanno cominciato a rappresentare un Dio che si era fatto uomo. In quanto Dio, non rappresentabile. In quanto uomo sì. Ma Cristo è Dio-uomo inseparabilmente. È tutta qui la sfida dell’arte cristiana (e sempre dell’arte...): rappresentare il non rappresentabile, cioè che sfugge perché sovrasta ogni rappresentazione. Rappresentarlo è empietà, perché pretende di mettere le mani su Dio. Eppure non rappresentarlo è pure empietà, perché è lui stesso, Dio, che si è fatto visibile e quindi rappresentabile. Questa tensione attraversa i secoli e si confronta con le sensibilità e le mani di uomini e donne di tempi e luoghi diversi, giungendo a volte a capolavori assoluti, in oriente e in occidente. Eppure a volte c’è la tentazione di dimenticare che si sta dentro una tensione, che l’arte non può compiacersi in se stessa quando parla di Dio, ma deve sempre mostrare un po’ la sua inadeguatezza... L’uso dell’oro, ad esempio, un materiale che non si ossida, un colore non colore difficilissimo da mettere insieme con gli altri colori, quasi un dipingere con la luce stessa, è come un irrompere del cielo, della luce, di Dio, sulla tavola. Eppure resta sempre una materia, non è Dio...Kuturi si confronta con questa tradizione e lo fa con lo spirito della contemporaneità. Il suo oro si ossida, gli altri colori scompaiono.Le parole sono certamente di troppo... Riempiono spazi che chiedono invece silenzi...Guardare una di queste icone sacre ossidate è come un po’ lasciare che l’acido che l’ha prodotta agisca anche in me, scavi, consumi, riveli nuove tonalità e riflessi.Icone, perché svelano Dio e al contempo parlano di una sua indicibilità. Troppo spesso oggi pensiamo di poter disporre di Dio, di poterlo manipolare, inquadrare. Troppo spesso pensiamo di averlo capito, di sapere com’è. Magari per seguirlo, magari per contestarlo.C’è un episodio nella Bibbia: il re Davide decide di portare a Gerusalemme, la sua capitale, l’Arca dell’Alleanza, il simbolo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Uzzà, uno dei portatori, che tenevano l’arca con delle aste, a un certo punto tocca l’arca, per sorreggerla. Dice la Scrittura: “L’ira del Signore si accese contro Uzzà; Dio lo percosse per la sua negligenza ed egli morì sul posto, presso l’arca di Dio” (2 Sam 6,7). Tremendo: non si può pensare di mettere le mani su Dio, nemmeno con le migliori intenzioni! Perché chi tocca Dio brucia! Ecco, a me queste icone bruciate, ossidate, hanno ricordato questo brano.Una ferita...come quella lasciata in ricordo a Giacobbe dopo una notte passata a combattere con Dio (cfr. Gen 32, 26). Non c’è altro modo per incontrare Dio che fare esperienza della propria debolezza, fragilità, che lasciarsi consumare e scavare da Lui.Nella tradizione della Chiesa orientale, le icone vogliono mostrare l’invisibile, quanto Dio ha scavato con la sua presenza nella storia, e nella vita di chi si è lasciato toccare, bruciare da lui, i santi. Volti straordinari, corpi trasfigurati. Capaci di chiamare chi li guarda a farsi lui pure scavare, bruciare.E d’altronde l’amore brucia sempre...amare è il rischio più grande, ne va della vita.Così le Icone sacre ossidate di Kuturi sono echi di antiche icone che risuonano nello spazio contemporaneo. E come davanti alle antiche icone, ogni parola è di troppo. Meglio lasciarsi prendere e scavare. Chissà che non capiti anche a noi di amare, e di entrare in quello spazio infinito di cui cogliamo qui un’eco.

Marco Scarpa
Professore presso l’Università Ca’ Foscari – Venezia, Dipartimento di Studi linguistici e culturali comparati

Non si può parlare di icona senza associarla immediatamente alla grande tradizione delle Chiese Ortodosse, nelle quali l’icona fa parte integrante della liturgia pubblica, è dunque costitutiva del culto a Dio: nessuna liturgia ortodossa può aver luogo se non c’è almeno un’icona. Che inoltre è presente anche nelle case private dei credenti: è davanti all’icona che la famiglia o singoli suoi membri si raccolgono in preghiera. Icona e preghiera sono intimamente collegate: l’icona scaturisce dalla preghiera ed è a sua volta sorgente di preghiera.A differenza del dipinto occidentale che tende a trasferire il divino nell’umano, lo spirituale nel materiale, il trascendente nell’immanente, l’icona orientale si muove nella direzione opposta: tende a sprigionare lo spirituale dal materiale, il divino dall’umano, il trascendente dall’immanente. Mentre il dipinto occidentale ubbidisce alla logica e alla regola dell’Incarnazione, l’icona orientale ubbidisce alla logica e alla regola della Trasfigurazione.

Dove si colloca, in questo quadro, l’«icona sacra ossidata» di Kuturi, com’egli stesso la chiama? Kuturi è un artista occidentale, che però si sente legato –così almeno sembra –all’arte iconografica orientale. Scrive infatti nel suo «Manifesto»: due sono i punti che«uniscono il mio lavoro a quello di un antico iconografo»: il primo è, ovviamente, la tecnica di base con l’uso dei materiali che compongono la tavola; il secondo è la preghiera. In questo c’è perfetta continuità. Dov’è che –scrive ancora Kuturi –«le strade si dividono» ? Si dividono nel momento in cui Kuturi, per realizzare l’icona, non usa i tradizionali strumenti per dipingere, ma ricorre a «acidi e solventi», cosa che un antico iconografo non avrebbe mai fatto e neppure accettato di fare. Succede però che questi «acidi e solventi», agendo autonomamente, con lenti processi, sulla materia, non la dissolvono nel senso di renderla informe, ma la trasformano nel senso di conferirle nuove forme e, con queste, nuovi significati.

L’artista, qui, non è più attore, ma spettatore. Assiste a una specie di miracolo: la materia, così trasformata, diventa rivelatrice. Si potrebbe a buon diritto parlare di una trasfigurazione della materia, in linea con l’intento originario dell’icona ortodossa. Certo, a questo punto,deve intervenire la parola. Tanto più un’immagine è eloquente, tanto più ha bisogno della parola. Sarà, prima di tutto, una parola interiore: l’icona parla dentro. Ma la parola interiore può anche diventare esteriore. Molte icone di Kuturi sonoaccompagnate da parole tratte dalla Bibbia, molto belle e calzanti, ciascuna delle quali coglie ed esplicita uno dei messaggi possibili delle icone. Che ne celano sicuramente molti altri, che si sveleranno a colui che non avrà troppa fretta di scoprirli.Per guardare bastano pochi istanti; per vedere ci vuole tempo.

Paolo Ricca
Teologo Valdese

Sondare la temporalità nel suo incedere in uno scenario mistico ed universale. Nel panorama attuale delle arti la presa di posizione di KUTURI è chiara. Al linguaggio apparentemente influenzato dall’ indeterminatezza dell’informale, KUTURI contrappone una controllata indagine metodologica e una rigorosa analisi per individuare e definire nuove possibili strategie estetiche alternative “alla prassi pittorica” convenzionale.

Obiettivo della ricerca è la trasformazione della pittura in “evento”, il cui significato e risultato si celano nel mistero di un cromatismo “magico” prodotto dalla reazione di elementi chimici, elementi lanciati sulla superficie di una tavola lignea rivestita da preziose e sottilissime foglie oro. Amplificando quel processo creativo, l’artista ci porta a riflettere e a ripensare all’idea della rappresentazione e della visione attraverso il percepimento dell’energia emotiva di una “nuova materia” aggressiva e/o aggredita.KUTURI, portando alle estreme conseguenze il processo dell’ossidazione, diserta il luogo classico della pittura producendo “un’attesa” che genera sorpresa, inquietudine. Affonda poi, il pensiero libero da ogni gerarchia nel vuoto di uno spazio-tempo il cui linguaggio ci appare arcano e indecifrabile, come ancora avvolto nel silenzio più profondo.L’uso di un materiale chimico come l’acido diviene medium artistico, capace d’incorporare attrazione e dinamismo esterno, il risultato che ne consegue è pratica di pietrificazione-ossidazione determinando un linguaggio pittorico di relazione con il mondo alchemico ed esoterico.

La struttura della materia, alterata nello spazio oggettuale della superficie “aggredita”subisce una dinamicità di tempo, attraversa dalla perdita oggettiva della sua naturale mutazione, e genera un’affascinante quanto oscura sintesi di materiali eterogenei: una nuova nozione di libertà che si manifesta sotto forma di velata “sinfonia visiva”.

Antonello Pelliccia
Docente di Metodologia della progettazione e Landscape Design
Direttore della Scuola di Progettazione Artistica per l’Impresa
Presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano

In Kuturi l’icona, immagine per eccellenza, simbolo della staticità, della fissazione figurativa, viene “distrutta” come erosa dal pensiero dell’uomo che interroga se stesso alla ricerca dell’ Altro in sé. La ricerca dell’ Altro in sé mette a nudo la natura fragile e combattuta della coscienza umana. L’Io si sente a disagio, incontra limiti al proprio potere nella sua stessa dimora, incontra ospiti stranieri nella sua stessa casa. Così, nelle sue opere, Kuturi contratta continuamente se stesso con se stesso, contratta la sua umanità, sospetta la sua unicità e intuisce altro in sé. E’ qui che l’Io dell’artista fa un passo indietro per lasciare spazio all’evento, alla pittura nel senso contemporaneo del termine, all’evento, alla rivelazione. L‘opera di Kuturi accade e nel suo accadere rivela non la visione del singolo, non un’immagine data di una personale ispirazione, ma un momento, un’esperienza del continuo divenire dell’Assoluto. E’ qui il sacro, inteso come mistero irriducibile dell’essere. Seper sacro si intende l’accesso alla relazione con ciò che sfugge a ogni principio di relazione allora l’arte comporta una vocazione sacra, perché l’opera non racconta, l’opera è. Essa incarna quella congiunzione di intimità e di estraneità: è una parte del mondo e insieme un’apparizione che esorbita l’immanenza del mondo.

Questo eccesso di senso rende ogni opera intraducibile, perché l’opera stessa traduce, trans-duce, porta al di là di se stessa. E’ così che Kuturi riporta la materialità a quell’uomo contemporaneo che Narciso si specchia compulsivamente nel virtuale, riporta una materialità che si autodetermina costringendo all’anacronistica bellezza dell’attesa, riporta alla Bellezza, quella Bellezza capace di traghettare l’uomo nel suo perenne dentro e fuori se stesso.Ma la bellezza, diceva Rilke, non è che il tremendo al suo inizio... quanto costa a quell’uomo, ferito dall’amara scoperta della sua umanità, il bisogno dell’Altro. Quella ferita narcisistica dell’uomo contemporaneo solo in un mondo dove il sacro è tabù resta evidente nelle cicatrici delle opere di Kuturi. Come nell’antica arte giapponese del Kintsugi il vaso viene riparato evidenziando le tracce della rottura con pittura d’oro, così le cicatrici di Kuturi esaltano le fratture, le crepe, le lacerazioni, sono prova di una rottura, quella frattura imprescindibile all’uomo che cerca, che erra in se stesso per cercare l’Altro in sé.

La natura ripara lasciando memoria di sé e del suo passaggio; guarisce, ma resta, la sua presenza eccede il bisogno, è dono di una presenza che non sparisce. Questo segno diventa il testimone silente e come tale ha un valore, ogni cicatrice è oro.Come ogni opera d’arte non è effetto della vita del suo autore, bensì riscrive la vita dell’artista e la risignifica, cosìla cicatrice riscrive la pelle, non solo essa non è più ferita o malata, essa è anche di più, è altro da ciò che era.

Kuturi coglie, così, nelle sue cicatrici l’ineluttabilità del destino dell’uomo che, gettato nel mondo, si ferirà o non vivrà affatto, in fondo quell’uomo nasce dal dolore e rinasce dal dolore proprio quando, grazie alla cicatrice, accetta la sua umanità e contempla l’errore, la rottura, la perdita, la disarmonia nella bellezza della vita.

Filomena Di Stazio
Psicologa, Psicoterapeuta

Il processo che ha portato Kuturi a creare le Icone ossidate potrebbe diventare una lezione di management per molte aziende che vogliono essere innovative.Per innovare, infatti, bisogna essere creativi e per essere creativi bisogna imparare a sbagliare.Perché l’errore altro non è che una creatività involontaria.

Se prendiamo, infatti, la definizione di errore del Sabatini Coletti: “Allontanamento dai principi logici, dalle cognizioni o dalle regole comunemente accettate” vediamo che potrebbe essere una definizione validissima anche per il termine creatività.La differenza sta, appunto, nel fatto che la creatività è un atto volontario mentre l’errore non è voluto.

Nel mondo aziendale il manager (colui che gestisce in azienda) è abituato a minimizzare i rischi lavorando per miglioramenti incrementali e riducendo gli sprechi; questo atteggiamento lo porta in maniera naturale a essere poco creativo per minimizzare, come da mandato, la differenza tra il risultato atteso e quello reale.

La capacità di Kuturi, quando si è versata l’acquaragia sulla foglia oro, è stata quella di non demonizzare l’errore pulendo e buttando via tutto, ma di lasciare che la sostanza agisse per permettere al processo involontario di evolversi, il giorno dopo, la sua capacità, è stata quella di riuscire a reinterpretare quello che era successo con occhi nuovi per poi partire da quell’esperienza per dare vita ad un processo artistico innovativo.

Tutto questo riconoscendo all’imprevedibilità e al non controllo un ruolo da protagonista nel gesto artistico facendo così, apparentemente, un passo indietro che dal punto di vista dell’innovazione, è, invece, un doppio passo avanti.

Kuturi potrebbe entrare nei libri di management come esempio di processo innovativo basato sull’errore per consigliare ai manager di imparare a sbagliare.

Giampaolo Rossi
Esperto di Comunicazione e Leadership

Le iconografie di Kuturi sono le pause necessarie che inducono a contemplare lo scorrere della vita da altre angolazioni e da inedite percezioni. L’attenta osservazione della poetica misterica conduce l’osservatore nei profondi valori trascendentali. Mistiche che si materializzano in salvifiche energie provvidenziali per colmare il vuoto disarmonico della coscienza che tocca da decenni l’intera umanità. Le quasi monocromie che scrive Kuturi hanno di solito uno sfondo a foglia oro, libere sintesi che sprigionano flussi incondizionati di rara spiritualità.

La ricerca dell’artista è tesa, da tempo, a scrutare spasmodicamente il mistero dell’ignoto per ricreare nelle sue opere evanescenti “apparizioni”, presenze armoniche svincolate dalla cinica entropia che produce processi involutivi d’infinita materialità. Occorre “specchiarsi” nelle icone dell’artista senza riserve mentali per esplorare, attraverso una necessaria ingenuità, le intatte dimensioni del mondo onirico; quel sogno individuale che, portato alla ribalta figurale, può diventare collettivo e infondere geometrie di luce nei pensieri più ricettivi. Scoprire, attraverso l’immaginazione dell’arte, porzioni di eternità e d’infinita grazia.

Mario De Leo
Pittore e musicista

L’affascinante incontro tra chimica e arte si rivela ,al presente, con le “Icone” (dal greco “eikon” che significa “immagine”) di Kuturi, poeta visionario e di stile sublime che sa orientarsi al di la’ della figurazione tradizionale, intervenendo concretamente sulle classiche competenze del mestiere artigianale. Fogli sottilissimi d’oro incollati meticolosamente (con processi metodologici secolari) sulla tavola di legno tecnico MDF preparata a bolo e asciutta che, grazie all’uso di acidi e reagenti si evolvono in un’idea cromatica fatta di toni e colorazioni del tutto originali. Fulcro dell’indagine e sperimentazione del pittore è “l’ossidazione”, un processo chimico che quasi sempre consiste nella combinazione di una sostanza con l’ossigeno. È una delle reazioni più comuni e in alcuni casi produce una grande quantità di energia.

Il più importante processo di ossidazione è la respirazione cellulare, tramite la quale gli esseri viventi si procurano l’energia necessaria alla vita. Intuizioni logiche e racconti della memoria s’intrecciano in eleganti vie espressive che richiamano e recuperano l’esperienza delle Avanguardie italiane della seconda metà del ‘900, riferendosi in particolare all’arte povera ed all’informale materico. Percorso alchemico disegnato da stesure di vernici ,velature di pigmento sintetico e sostanze caustiche che si accumulano e ossidano; rete di forme dell’inconscio che emergono e plasmano il supporto ligneo elaborando cretti artificiali, il tutto disteso in una composizione policroma che spazia dall’oro bizantino al colore bruno sino al riflesso azzurro-verdognolo in trasparenza.Le dimensioni di queste opere sono analoghe agli antichi dipinti devozionali e vengono cuciti su misura,come da un sapiente sarto, all’interno di teche in plexiglas ,riflettendo una sorta di acquari della figurazione primitiva, dove il tempo “magma incessante” si placa e congela davanti ai nostri occhi.Il retro invece presenta la sigla dell’artista con numerazione progressiva (ricorda la tiratura delle tecniche di stampa) e il sigillo a ceralacca per un richiamo agli antichi manufatti medievali.Il cantore napoletano, sapiente tecnico e di rara sensibilità, svela la realtà oltre il visibile ed applica la sua inedita vocazione informale per rivendicare all’arte le più sottili e profonde emozioni umane. Il pensiero creatore riacquista qui i suoi diritti e scaturisce in pura poesia, corpo estremo che ha come mèta la ridefinizione del concetto di identità dell’opera.Il concetto di “ossidazione” proposto dall’artista ci riguarda tutti, concretamente, sia a livello cosmico che planetario. Anche l’invecchiamento umano è dovuto al processo chimico dell’ossidazione, si nasce e muore all’interno di grandi rapporti cosmici e strette relazioni.Opere liriche che racchiudono un’immagine, uno stato d’animo, una emotività che si trasmette all’osservatore attento. Kuturi, assoluto maestro del colore e dal linguaggio raffinato, si esprime con una brillante percezione della vita e intensa spiritualità, rendendo ogni sfumatura o elemento sovrapposto una sensazione unica e irripetibile. La sua arte è da considerare sacra nel senso pieno del termine.

Qui non si concentra la storia su una figura o composizione riconoscibile, ma si va all’essenza delle cose attraverso piccoli indizi che arrivano direttamente all’animo umano. L’opera nella sua incomparabile liricità è “in divenire” come è in divenire il pittore stesso: é dissodare la figura dell’uomo, scorticarla, modellarla, cristallizzarla. Il virtuoso autore, nel suo approccio segreto e di ricerca incessante, muta la natura dei materiali sublimandoli in “frammenti” che lasciano infinite strade da percorrere e individuare. Straordinarie testimonianze dell’ingegno creativo tra “lux in tenebris” e il “Magnificat”, sintesi perfetta di una fede laica e libera che invoca caduta o redenzione. Pagine da sfogliare dove si percepisce una durata limitata nel tempo, destinata a mutare, morire e rinascere in una chiara metafora di quello che è il destino dell’uomo.La semantica “oltre il visivo” e la metamorfosi del Kairos mi riconducono a due eminenti esempi dell’arte contemporanea che hanno saputo attraversare l’esperienza tangibile verso la genesi della bellezza universale : Alberto Burri con la deperibilità e metafisica dei materiali e Mimmo Paladino con il recupero e le coinvolgenti sperimentazioni. L’esecuzione pittorica di Kuturi “si fa pelle” e il tempo diventa ”liquido acido” che corrode ogni cosa, ma la memoria rimane nella mente di chi osserva e percepisce l’oggetto-soggetto nel suo divenire. Mi piace accostare queste “istantanee della mente” dell’artista partenopeo ad una breve frase di straordinaria bellezza del poeta argentino Roberto Juarroz che dice : “La lezione maggiore dell’infinito è smettere d’essere, a volte, infinito”. Ora non ci resta che chiudere i nostri occhi per aprire quelli dell’anima, così da respirare “l’incanto dell’istante” raccontato in questi capolavori.

Prof. Danilo Giusino
Esperto e critico d’arte

In semiologia il segno è simbolo se la correlazione significante/significato avviene in virtù di una convenzione, ad una parola corrisponde un significato perché stabilito convenzionalmente. Mentre un segno è icona quando la correlazione significante/significato esiste in virtù diuna similarità effettiva. Il disegno è un’icona mentre la parola è un simbolo. Ma il Sacro è rappresentabile? La religione e la filosofia ci hanno spiegato nei secoli che la comprensione del Sacro da parte dell’uomo è incompleta, anche impossibile. Dunque come posso rappresentare qualcosa che, in quanto essere umano, non sono in grado di capire? E di conseguenza come posso immaginare per esso una similarità effettiva per tradurlo in segno? Di fronte alle Icone Sacre Ossidate di Kuturi la definizione che la semiotica offre della parola “icona” è più che mai calzante. Come sarebbe oggi possibile raffigurare il Sacro se non attraverso l’arte concettuale (che sebbene simbolica per sua natura qui diviene iconica allo stato puro in un rimescolarsi continuo di senso)? Ma Kuturi va oltre, si fa rappresentazione della condizione umana, dell’agnostico, del filosofo e del fedele che in ogni cosa scorge il Divino. Non solo le sue Icone Sacre ma la loro creazione stessa ne è metafora.

Kuturi è l’uomo che si pone delle domande e allo stesso tempo l’artista che si fa strumento della ricerca delle risposte. Con ogni opera inizia una ricerca del Sacro ma fa poi un passo indietro, conscio dell’impotenza di giungere con le proprie forzealla soluzione dell’enigma, lasciando che siano i materiali che usa sapientemente, che sceglie, che mischia, a vivere, morire e infine rinascere attraverso l’ossidazione, fino a diventare Icona. E l’ultima fase della realizzazione delle Icone Ossidate, laloro lettura come in una divinazione sciamanica, coincide con la ripresa della ricerca e con il tentativo della comprensione di quelle tracce di Sacro che esse recano in sé e che possono essere scorte solo se si è disposti a leggerle nella bellezza. Nei secoli le icone hanno rappresentato ciò che per noi è sacro, più che il Sacro: i santi, la Madonna, il Cristo. E non solo a livello religioso. Sacre sono le icone pop di Warhol perché egli ha voluto raffigurare, attraverso l’ironia e il paradosso, quello che per la società consumistica è tale.Eppure le icone sacre come le abbiamo conosciute finiscono con il perdere la propria natura iconica per diventare simboli, comprensibili solo grazie alla conoscenza della religione cristiana che permette di riconoscere in un volto di uomo quello di Cristo e in una figura femminile la Madonna. Proprio come Elvis e Marilyn Monroe sono icone della musica e del cinema perché universalmente conosciuti come tali (altrimenti i loro ritratti sarebbero semplici immagini di un uomo e di una donna).

Se il Sacro è irrappresentabile non può esistere similarità tra esso e la sua raffigurazione se non attraverso l’arte concettuale. L’arte concettuale restituisce cioè l’unica immagine possibile del Sacro (le foglie di materiali preziosi e gli acidi di Kuturi, come il blu di Klein, l’oro di Peruz). Eppure l’arte concettuale è l’arte più simbolica che esista poiché può essere pienamente compresa solo grazie alla conoscenza del significato nascosto che le viene attribuito dall’artista (il taglio di Fontana resta un semplice taglio sulla tela se non si conosce la ricerca dell’artista sulla spazialità, la ruota di bicicletta di Duchamp smette di essere una semplice ruota di bicicletta quando si ha la nozione di cosa sia il “ready made”). Le Icone Ossidate di Kuturi rimescolano le carte: quella concettuale diventa l’unica forma d’arte possibile per restituirci il Sacro, perde la sua natura simbolica e si fa iconica allo stato puro durante il processo creativo rappresentando l’irrapresentabile per recuperarla solo alla finenella fase di lettura e interpretazione, quando l’artista scorge nel risultato finale un rimando, un significato, un ricordo personale e assegna all’Icona un titolo che sa di scoperta e di risposta. Si dice che la bellezza risieda nell’occhio di chi guarda; per Kuturi il divino è nell’occhio di chi guarda la bellezza.

Alessandra Di Campli
Regista R.A.I. TV
dott. Lingue e letterature straniere

ENG

The gold leafwas an anthology of verdigris, gradations of colour that opened up a new vision

1.It is becoming ever rarer to meet authors who live independently on the side of the art system, who produce their works defining their own system of expression and creating a cycle of works in tune with contemporary culture. Compared with the past and closely related with the long crisis in the Italian economic system, the whole patrimony of artistic creativity as well as the system of private galleries and public exhibition spaces has undergone a drastic reduction in the number of operators, and seen thecollapse of the contemporary art market among large strata of the population. In fact, the fall in numbers and the crisis in collecting, never diffuse in Italian society, herald a further impoverishment of the entire patrimony of Italian art for the future. This marginalisation has concerned only the initial phase of the museum and exhibition spaces and an iconography approved by custom and popularity. Parallel to this, it has been noticed that contemporary art has attracted more attention from and presence of the financial system in the last decade.Within these difficult social and cultural dynamics, unusual and isolated artistic figures, not always and not even properly recognised as actors in the expressive system, represent a precious signal of vitality, for their creativity attentive to and correctly positioned with regard to the processes of contemporary communication. The fact that art also flourishes outside the institutional rules of the academies and the market has always been a mark of continuity with the primary principle of artistic activity in human society. It is the task of the different art professionals and institutions to play an active rôle in acknowledging this. In this framework of attention, I accepted the invitation of AntonelloPelliccia, architect and colleague in Brera, to become acquainted with the work produced in recent years by KUTURI, on show for the first time in the serious environment of the Protestant Cultural Centre in the centre of Milan. The attention that the Office for Culture and Tourism of the Naples City Council has turned to KUTURI, by lending the P.A.N. (Naples Palace of the Arts), offers an important occasion to develop and finalise the artist’s creative dimension, collected in this publication, marked by numerous critical reviews from different cultural points of view and orientations.

2.Even in the phase before first observing the work, I was curious about the attention that the artist paid to the question and the complex valences and values contained within the original experience of the icon. In the history of Western artistic culture, the icon was a fundamental hinge between the contemporary period and the beginning of the concept even of the artistic image in Christian experience. In fact, I have foundthe enactment of an expressive process orientated toward capturing the function of the work in relationship to the central aspect of bearing witness, and to the determination to impose a perception in an exclusive, not a narrative, manner.The way his creativity is orientated suggested his wish to carry out a reflection on this structural datum in the definition of visual languages, and a suggested reprocessing seemed immediately intriguing, raising my curiosity to make contact.

3.A look at KUTURI’s firstworks gave me confirmation that here was a particular form of re-visitation and re-processing of the concept of the icon. Of the original form remained the shape and the size, the search for an internal tension, the supporting structure and the character of “precious object”. Each artifact set out in the exhibition was not part of a narrative succession but was an independent subject, each with its own power of attraction and specific perception.My understanding of his work could not follow a development but obliged me to concentrate independently and autonomously on each creative entity: this observation was in the nature of research and discovery, of careful enquiry into a distinct visible reality, always reinforced by unusual internal details. The choice of a stringent form of presentation, with “methacrylate box frame”, further emphasised the indication to protect the content, to defend the work’s internal æsthetic unity. The choice of ‘enclosing’ the board and its ‘world’ within which lumps and fractures are distributed, provides a structural emphasis of the definition of the icon itself as precious.

4.This first cycle of icons was followed by further works distinguished by their unusual expressive forms, at the centre of the exhibition in Naples today and of this publication. These reflections arose after seeing these works, and a meeting with KUTURI. The biographical information thus acquired revealed that he has been constantly in relationship with artistic culture in a manner that is absolutelyautonomous with regard to the system by which it is organised: this independence, however, has not meant dissociating himself from information but has developed through select comparisons; those that stand out are his association with artists in Lucio Amelio’s Gallery in Naples, the enlightening encounter with Arman in Paris and his contacts with the Brera Gallery in Milan. Most probably, the research carried out in defining the ‘contemporary icon’ has its basis in the whole season of the ‘second avant-garde’ and particularly in all those different artistic Movements, from Pop to Minimal to Nouveau Réalisme, that opted towards defining the artifact-image of art. Yet on this wide basis of æsthetic thought, KUTURI has inserted an internal alchemical type of process, an existence open to unforeseeable developments, while maintaining the ‘iconographic fixity’ of the icon. Substituting a “chemical reaction” to the management of colour, started off a search for the un-programmable internal vitality of matter itself, concealed in and drawn out by contamination; each gold-covered board becomes the production place for an experiment, a space for the development of an æsthetic process. KUTURI has in fact studied all the steps behind the culture of the ancient icon, the careful choice and use of the board, the preparation of the stucco, the use of egg-yolk and beer, the layering of the gold leaf and finally the study of the pigments and their use; it is from this heritage of knowledge that the whole cycle of contemporary icons arises. To the stability that comes from an immobile repetition of acts and techniques, KUTURI contrasts, with the same instruments, innovation and research, instability and evolution; it is above all the stones from which the ancient pigments originate that stimulate the chemical reaction and the alchemical processes, the acids added and the organic materials: ‘Then came the turning point, a mistake, the divine touch, the invisible hand that overturned the tin of turpentine that ran all over the gold leaf carefully laid. “What a nuisance! I’ll leave everything and close the shop. I’ll see about it tomorrow.” ‘The following morning there was the revelation: the gold leaf was a blossoming of verdigris, with shades of colour that disclosed a new vision. That was when all the experiments with every possible type of acid and solvent started...’ A chance incident that sets off a journey, a process in the atmosphere of work in regress that defines contemporary culture in art; a proceeding thatdoes not renew itself, following alchemical practice, but that lives on experimentation refined by time: ‘Time may be compared to a universal “acid”, that corrodes the “basis” of Nature’s forms, especially if these “bases” are built by man in the form ofsymbols and meaningful contexts.’ (Riccardo Notte).

5.The great sculpturesThe exhibition in Naples, undertaken with the enthusiasm produced by a return to his cultural origins, very present in the definition of alchemy by experience, shows the risky development of new adventures in expression and the choice of unusual forms; the closed and protected dimension of the box frame, unimaginably embellished by the exemplary use of methacrylate, does not seem to contain KUTURI’s curiosity and desire to experiment. His latest works are a large Altar-piece, two Sculptures, a Polyptych and a plastic installation –artifacts based on a widening of the culture and values within the historic dimension of the icon, and I would add of the sacred culture of Christian origin, so persistent in the Orthodox Church. The Cross, the Polyptych and the Tomb, among the central icons of the liturgy, between life, death and resurrection, are re-visited and re-interpreted, I would suggest even enriched by the dialectic valences that his artistic sensibility has ‘unleashed’. Going through the exhibition, one absorbs the atmosphere released by the immediate force of the materials employed, distinguished by the theological centrality of light, by its reinforced vitality and interference in space; the geometric-symbolic dimension that comes about is highlighted by the gold patina, but the large surface of a non-iconic altar-piece is also progressively impacted by a magmatic and swarming oxidation. KUTURI concludes the path he has traced distinguishing it with the element of transgression proper to one who faces death with the value of rebirth, of superseding the present, of an artist who sees hope in creativity, inclining towards those new forms of thought that only a bitter irony and possibly playfulness can suggest.

Andrea B. Del Guercio
Professor Chair of the History of Contemporary Art Brera Academy of Fine Arts, Milan

The relation between symbol and sign has stimulated philosophers’ and scientists’ reflections for thousands of years. Taken in itself, any sign can communicate the existence of a scheme of action or bring some thing to mind; but for it to be associated to a meaning whoever looks at it must share the context in which that meaning made sense, for that is the foundation of human communication. If a sign loses contact with the symbols that made it immediately understandable, coherent and consistent, it lies open to extraneous interpretations. This is frustrating for the researcher or interpreter who wishes to decipher the object being examined. In another context, this bareness can become an opportunity, for an enigmatic sign can stimulate the observer’s attention and free it from the invisible threads of meaning to float in the multi-sensorial space of the imagination. So, looking at Kuturi’s latest work, one recognises a heterogeneous setoff signs almost completely deprived of context that have yet a certain unity. Some seem easily recognisable symbols; but Kuturi’s modifications disjoin these symbols from the social, æsthetic and historical world that produced them in their ascertainable identity of form. In other words, Kuturi deliberately takes the symbols back to the bareness of the sign. The brief notes that follow start therefore from the sign as basis: “keys” to open the doors of perception, thought and imagination.

The signs are in fact timeless, even if we can place them in a particular historic space, even if translated into sculpture, paintingor installations. But what are the signs chosen by Kuturi ? Along the walls are exhibited a number of gold-leaf icons, treated with a particular oxidising method discovered, years ago, by chance, indeed by mistake, as the artist himself recalls. For thelayman it may be useful to mention that gilding requires various phases. First, the support (usually a piece of wood) is prepared with stucco and then a mordant called “bole” –a type of clay of different colours and names according to its place of origin, e.g. Armenian bole, Bohemian bole, etc. This done, with a precious sable brush and using natural adhesives, one applies a thin layer of pure gold leaf (one of the seven wonders of metallurgy) that is then polished with a piece of agate.

The whole is avery delicate and difficult operation that requires consummate skill and infinite patience. A single mistake can ruin everything. Well, one day Kuturi found the result of his work spoiled by some acid that had fallen on to it by chance. The concept of “chance”, though, is only one way to understand a sequence of events in life. Getting over his understandable immediate consternation, Kuturi observed this “chance” and transformed it into a “cause”: because the beauty and variety of forms and colours that emerged from that chemical mixture were of a surprising and fascinating visual quality. Every oxidation process (technically oxidation-reduction, or redox) requires a certain amount of time, that varies according to the concentration of the solute, the amount of solvent and the substances concerned in the reaction. The final result, in terms of what will emerge, is always unforeseeable. Above all, this particular process shows a distant affinity with traditional photographic film, developed and printed in a dark-room.

Even if he knew all the technical secrets, the photographer of former days also knew that the process of development and printing sometimes produced surprising random effects. Here is the fascination of the non-digital sign, that cannot be reduced to a single meaning, the sign drawn by the encounter of nature (the chemical reaction) and culture (the artist’s hand). In other words, Kuturi discovered that a certain chemical process can erode not only matter but also a symbolic construct andreduce it to the elemental status of the sign. Time may be compared to a universal “acid”, that corrodes the “basis” of Nature’s forms, especially if these “bases” are built by man in the form of symbols and meaningful contexts. The comparison serves toput into context Kuturi’s works on show in this exhibition. There are several installations of varying size. First, a small triptych, an “ancient” and typical form (think, for example, of the famous Polyptych of Ghent by Jan van Eyck). By removing the figurative content, that is removing the iconography, every polyptych becomes a doorway or a window. Conceptually, a door can be a simple line, the border line between two sovereign states, for example.

This “sign-object” does not exist in Nature but it exists in the forms of human organization for it is in fact a threshold, even though no-one dreams of drawing a physical line between two political entities. When physical barriers are raised, they are no more than visual, material, but above all “symbolic”obstacles that emphasize the closure of the frontier, meaning the “door”, to leave out (or keep in) some, many or all; no-one dreams of extending the voluntary action of this threshold to a bird in flight or the root of a tree. Kuturi’s polyptychs (and icons), free of iconography, freed therefore from a symbolic context, are triple thresholds: to the canonical form of the window are added the threshold of non-chromatic pure gold and then that of the chemical and physical reaction between acid and base. The same may be said for the large cross at forty-five degrees placed so that the gilded front part is reflected in a mirror on the wall. While the mirror highlights the three-dimensional quality of the object, it also offers an unusual tunnel effect thatinvolves the observer and the reflected image of the divine in a play of mutual drawing nearer or farther away, according to his position before the mirror.

The allusion is to the Biblical prohibition to look directly at God, present in other traditions,as in the myth of Zeus and Semele. Not only does the particular placing of the cross (not to be confused with a cross of Saint Andrew) destabilize the canonical universality of the analogous creed of faith, but also the treatment it has received erodes the symbol in the direction of a bare sign. In fact, the reflecting surface makes the object exceed its limits in the multiplied dimension of the reflected world, going “through the looking glass”. Passing a large altar-piece placed opposite votive candlesand lights, we come to a cross that has been transformed into a hypercube (another allusion to going through the perceived spatial dimension that is taken for granted) and encounter at the end of our tour an object that is troubling by nature: a coffin.

This installation is called Selfie. It is a sacellum covered by a cracked tombstone. A strong light inside highlights the gold mirror lining. Beside it, an empty chair marked by a gold wound alludes to an absence, a painful separation. The tombstone bears a photograph of the artist as a child, in black and white. Two dates are engraved: the date of Kuturi’s birth and the date of the opening of this exhibition. Very plain is the intention of transforming the occasion of an exhibition into the signal of a rebirth, a regeneration: as many as the effects of crossing a threshold. However, in this case too, the installation is made considering the effect of the subtraction of meaning; the reduction to a sign. In this we find not a few affinities with what happens with archæological finds that indicate (but do not represent) irretrievably lost cultural identities and symbolic forms (Wittgenstein’s “forms of life”). It is a common opinion among anthropologists that the first rite of burial is an indicationof a new cognitive structuring, assimilable to the present one; it is an unmistakable indicator of a world of beliefs concerning the relationship between life, death and some conception of the hereafter.

Many are the conjectures about this crucial passage. However it may be, the tombs of Skhul and Qafezh in Israel or La Chapelle-aux-Saints and La Ferrassie in France, or Sungir in Russia, not to mention countless other discoveries come to light more or less recently but in places distant in both time andplace, all have in common the fact that they are signs that to our eyes have lost the symbolic worlds of which they are an expression. No end of theories can be posited about such beliefs (those of David Lewis-Williams and David Pearce, for example, are fascinating). To put forward symbolic interpretations of now-lost human worlds, scholars base themselves on objects or residues in burial places: instruments, pigments, organic remains of various nature, jewellery, arms. That is to say, simple signs. And yet these suppositions, however well argued, remain opinions influenced by our interpretative models.

These enigmas of prehistory show up to what point the signs they represent bear witness to the existence among our remote ancestors of the perception of the threshold. At this point, and in conclusion, it will be useful to appeal to who has gone beyond the methodology of dichotomy and analysis. In the thought of the philosopher, æsthetician, mystic and mathematician Pavel Alexsandrovič Florenskij, the icon is considered to be an image of the world to come, ever a partial, wavering and uncertain image in this world. Nevertheless, by virtue of its constitutive elements (fixity,ritual gesture trapped between time and the Eternal, immaterial gold light, etc.), and by reason of its very particular type of production, indeed I would say the daily exercise practised by the painter of icons, the icon is also an image that can transfer traces of metaphysical profundity into the temporal dimension. The reason for its existence consists only in being a sign that bears witness: what is visible after going beyond the threshold of the invisible.

Riccardo Notte
(Anthropologist)

Entering into a dialogue with the tradition of Oriental Christian icons is an act of courage Kuturi’s part. It is a long and rich tradition that started in the first centuries of Christianity, when the believers had started to represent a God who had become man. To be represented as God –no, but as man, yes. But Christ is inseparably God-man. Here lies the challenge to Christian art (and to art ever): to represent what is cannot be represented, what cannot be grasped because it is on a higher plane than any representation. Representing it is impious, for it is an attempt to lay hands on God. Yet not representing it is also impious, for it is God himself who has made himself visible and therefore possible to be represented.

This tension crosses the centuries and encounters the sensibility and hands of men and women of different times and places, sometimes achieving absolute masterpieces, in the East and in the West. And yet sometimes the temptation is to forget that one is within a tension, that art cannot be content with itself when speaking of God, but must show something of its inadequacy... The use of gold, for example, a material that does not oxidise, a colour that is non-colour, very difficult to put together with other colours, almost as thoughpainting with light itself, is like a burst from the sky, from light, from God, on the wood. Yet is remains matter, it is not God... Kuturi measures himself against this tradition and he does this with a contemporary spirit. His gold oxidises, the othercolours disappear. Words are certainly unnecessary... they fill spaces that ask for silence... To look at one of these sacred oxidised icons is like allowing the acid that produced it to work in me too, to dig, consume, reveal new tones and shades of colour.

Icons, because they reveal God and at the same time show how impossible it is to speak of him. Too often today do we think that we can dispose of God, manipulate him, keep him within limits. Too often do we think we have understood him, that we know what he is like. Possibly to follow him, or possibly to object to him. There is an episode in the Bible: King David decides to take the Ark of the Covenant, the symbol of God’s presence in the midst of his people, to Jerusalem, the capital. Uzzah, one of the bearers who carries the Ark on poles, touches it to steady it at a certain point.

The Scripture says: “The Lord was angry with Uzzah and struck him down there for his rash act” (2 Sam 6:7). Tremendous: no-one may think of laying hands on God, not even with the best intentions! For whoever touches God burns! Well, these burned, oxidised icons brought this incident to mind. A wound ... like the one left as a reminder to Jacob after a night spent wrestling with God (Gen. 32:26). There is no other way to encounter God than experiencing one’s own weakness, fragility, allowing Him to consume us and work within us.

In the tradition of the oriental Church, icons aim at showing the invisible, how much God has worked with his presence within history and within the life of those who have allowed him to touch them, burn them: the saints –extraordinary countenances, transfigured bodies –can call those who look at them to allow themselves, too, to be worked in, burned. And, besides, love always burns... loving isthe greatest risk, a vital risk. So Kuturi’s sacred oxidised Icons are echoes of ancient icons that resound in contemporary space. And, as before an ancient icon, words are superfluous. Best to let oneself be taken up and worked in. Who knows whether we may not love, and enter that infinite space, an echo of which we perceive here.

Marco Scarpa
Professor in Ca’ Foscari University –Venice
Department of Comparative Linguistic and Cultural Studies

One can not mention an icon without immediately associating it with the great tradition of the Orthodox Churches, where the icon is an integral part of public liturgy, and therefore a constituent of the worship of God: no Orthodox liturgy may take place without at least one icon. These are also present in the homes of the faithful: it is before the icon that the family or the single members gather to pray. Icon and prayer are intimately connected: the icon arises from prayer and it is in its turn a source of prayer.

Now, Western painting tends to transfer the divine into the human, the spiritual into the material, the transcendent into the immanent, whereas the Oriental icon moves in the opposite direction: it tends to release the spiritual from the material, the divine from the human, the transcendent from the immanent. Western painting follows the logic and rule of the Incarnation, whereas the Oriental icon follows the logic and rule of the Transfiguration.

So where, in this frame-work, do we place Kuturi’s “oxidised sacred icon”, as he himself calls it ? Kuturi is a Western artist who feels linked –seemingly –to Eastern iconographic art. As he writes in his “Manifesto”: there are two points “that link my work with that of an ancient painter of icons”: the first, obviously, is the basic technique and the use of the materials employed on the support; the second is prayer. In this there is perfect continuity.

So where –continues Kuturi –does “the road divide” ? It divides at the moment when Kuturi does not use the traditional painter’s instruments to create his icon, but resorts to “acids and solvents”, which an ancient painter of icons would never have done or even accepted to do. It so happens, however, that these “acids and solvents”, acting with slow autonomous processes, do not dissolve the matter in the sense of making it formless, but they transform it in the sense of giving it new forms and, with them, new meanings.

Here, the artist is no longer an actor but a spectator. He is present at a sort of miracle: the matter, thus transformed, becomes revealing. One may well speak of a transfiguration of the matter, in line with the original intent of the Orthodox icon. Certainly, at this point the word must enter the scene. The more eloquent the image, the greater the need of the word. This will be, first of all, an internal word: the icon speaks internally. But the internal word can also become external.

Many of Kuturi’s icons are accompanied by beautiful and fitting words taken fromthe Bible, each of which captures and makes explicit one of the possible messages of the icons. These surely contain many others, that will be revealed to the observer who is not in too great a hurry to discover them. Looking takes only a few moments; seeing takes time.

Paolo Ricca
Waldensian theologian

Probing time as it proceeds in a mystical and universal scenario. In the present panorama of the arts, the stand taken by Kuturi is clear. To a form of expression seemingly influenced by the indeterminate and informal, KUTURI opposes a controlled methodology of inquiry and a rigorous analysis to pin-point and define possible new alternative æsthetic strategies to conventional “pictorial practice”. The aim of his research is the transformation of painting into an “event”, the meaning and result of which are hidden in the mystery of a “magical” range of colours produced by the reaction of chemical elements thrown on to the surface of a wooden support covered by very thin and precious gold leaf. By amplifying this creative process, the artist leads us to reflect upon and re-think the idea of representation and vision by perceiving the emotional energy of a “new matter” which is both aggressive and subjected to aggression. By taking the process of oxidation to its extreme consequences, KUTURI deserts the classicmode of painting and produces “an expectancy” that gives rise to surprise and disquiet.

Freed from all hierarchy, thought then goes into a vacuum of space-time whose language appears arcane and undecipherable, as though still wrapped in the deepest silence. The use of a chemical material such as an acid becomes an artistic medium that incorporates external attraction and dynamism. The result is a petrifaction-oxidation that determines a pictorial language related to the exoteric world of alchemy. The structure of the matter, changed on the space of the object’s “attacked” surface, undergoes a change through time, with an objective loss of its natural mutation, that gives rise to a synthesis of heterogeneous materials that is as fascinating as it is difficult to understand: a new notion of freedom that transpires under the veiled form of a “visual symphony”.

Antonello Pelliccia
Professor of Planning Methodology and Landscape Design
Director of the School of Artistic Planning for Industry
Brera Academy of Fine Arts, Milan

In Kuturi the icon, image par excellence, symbol of the static, of the fixed figure, is “destroyed” as though eroded by the thought of man who questions himself in search of the Other in himself. In search of the Other in oneself the fragile nature of thehuman conscience is revealed. The ego feels ill at ease, encountering the limits of its own power in its own domain, encountering foreign visitors in its own home.

So, in his works, Kuturi continually bargains with himself against himself, he bargains his humanity, suspects his uniqueness and glimpses intuitions of the other in himself. Here the artist’s ego takes a step backwards to leave space for the event, the painting in the contemporary meaning of the term, the event, the revelation. Kuturi’s work happens and its happening reveals the vision, not of the singular, not of an image given by a personal inspiration, but a moment, an experience of the continual becoming of the Absolute. Here lies the sacred, seen as the irreducible mystery of being.

If by sacred one intends access to relating to what escapes every principle of relation, then art carries a sacred vocation, for the work does not relate, the work is. It embodies the meeting of intimacy and strangeness: it is a part of the world and at the same time an apparition that is outside the orbit of the world’s immanence. This excess of sense renders every work of art untranslatable, because the work itself traduces, carries one beyond itself. That is how Kuturi restores material consistency tocontemporary man who is a Narcissus gazing compulsively at himself in a virtual mirror; he restores self-determining material consistency compelled into the anachronistic beauty of waiting, takes us back to Beauty, that Beauty that can transport us in our perennial journeying into and outside ourselves. But beauty, as Rilke said, is only the tremendous at its start... what the need of that Other costs that man, wounded by the bitter discovery of his humanity.

That narcissistic wound of contemporary man, alone in a world where the sacred is taboo, is evidenced in the wounds of Kuturi’s works. As in the ancient Japanese art of Kintsugi, where a broken vase is repaired showing up the traces of the break with gold paint, so Kuturi’s scars give importance to the breaks, cracks and tears, proofs of a break indispensable to the man in search, wandering within himself to find the Other in himself. Nature restores, leaving a memory of its passage; heals but remains, its presence exceeds the need, and is the giftof a presence that does not disappear. This sign becomes a silent witness and as such has value, every scar is gold.

As every work of art is not the effect of its author’s life, but rewrites the artist’s life and gives it new meaning, so a scar rewrites the skin, not only is it no longer wounded or ill, it is also more, it is something other than what it was. So Kuturi catches in his scars the unavoidable destiny of man who, cast into the world, will be wounded or not live at all; at bottom that man is born of pain and is reborn of pain precisely when, thanks to the scar, he accepts his humanity and contemplates the error, the break, the loss, the disharmony in the beauty of life.

Filomena Di Stazio
Psychologist and psychoanalyst

The process that led Kuturi to create the oxidised icons could become a lesson in management for many companies that want to be innovative. Innovation requires creativity and to be creative one needs to learn to make mistakes. For error is only involuntary creativity.

Indeed, Sabatini Colitti’s definition of error: “Distancing from logical principles, cognition or commonly-accepted rules”, could be a very good definition of creativity. The difference lies in the fact that creativity is voluntary whereas error is involuntary.In the world of business, the manager (who runs the company) is accustomed to minimising risks and working at improvement and reducing waste; this attitude naturally leads him to being not very creative so as to minimise the difference between expected results and those achieved.When the turpentine spilled on to the gold leaf, Kuturi was able not to stigmatise the error by cleaning everything up and throwing it away, but he allowed the substance act and enabled the involuntary process to evolve the next day.

His ability lay in being able to reinterpret what had happened with new eyes and then start anew from that experience to give life to an innovative artistic process. All this acknowledging that what is unforeseeable and not controlled can play a leading rôle in the artist’s gesture, thus taking a seeming step backwards that, from the point of view of innovation, is instead a double step forwards.Kuturi could enter books on management as an example of the innovativeprocess based on error, to advise managers to learn to make mistakes.

Giampaolo Rossi
Expert in communication and leadership

Kuturi’s iconographies give us pause and induce us to consider the flow of life from other angles and new perceptions.Attentive observation of this poetics of mystery leads the observer to deep transcendental values –mystics that materialise in providential saving energies to fill the empty disharmony of the conscience that has touched the whole of humanity for decades.Kuturi’s near-monochromes usually have a gold-leaf background, free-flowing syntheses that release unconditional currents of rare spirituality.

The artist has been seeking to scrutinise the mystery of the unknown so as to recreate “apparitions” in hisevanescent works, harmonic presences not bound by the cynical entropy that produces infinitely material convoluted processes.We need to “mirror ourselves” in the artist’s icons without mental reservations and with necessary naïveté, to explore the intact dimensions of the dream world –the individual dream that, approaching the stage of figure, can become collective and induce a geometry of light in the most receptive minds, discovering, through art’s imagination, glimpses of eternity and infinite grace.

Mario De Leo
Painter and musician

Kuturi Atelier

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